Gesù piange su Gerusalemme

Questo post è stato pubblicato sul blog della rettoria “Santa Toscana” in Verona.

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Vangelo proclamato nella IX Domenica dopo Pentecoste (forma straordinaria del rito romano)

Nei primi secoli, la Chiesa latina conosceva la IX Domenica dopo Pentecoste come la “domenica dei guai di Gerusalemme“, per via del brano evangelico proclamato in questa occasione.

Sapendo che il popolo eletto dell’Antico Testamento, cioè il popolo ebraico, non solo avrebbe consegnato il Re della gloria ai romani affinché fosse crocifisso, ma lo avrebbe persino misconosciuto nella natura divina, che pure aveva saputo scorgere, Gesù non riesce a trattenere la propria commozione nello scorgere da lontano la sagoma della sua amata Gerusalemme.

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Il pianto di Cristo su Gerusalemme già preannuncia la sua Passione. Lo stato emotivo che attraversa le righe di questo brano è lo sconforto. Lo sconforto di Dio che rispetta la libertà umana fino alle sue estreme conseguenze: le autorità ebraiche dell’epoca – lo sappiamo bene – avevano capito che Gesù Cristo è il Messia promesso sin dall’epoca di Adamo, ma non lo volevano accettare per invidia.

Spiega magistralmente san Tommaso d’Aquino (Summa theologiae III, q. 47, a. 5, co.):

«Va detto che, presso i Giudei, alcuni erano di alto, altri di basso ceto. Quelli di alto ceto, detti loro “capi”, seppero […] che quell’uomo era il Cristo promesso nella legge. Infatti, “vedevano in lui tutti i segni che i profeti avevano predetto” (Ambrogio, Quaest. Vet. et Nov. Test., N. I, 66).

Essi, però, ignoravano il mistero della divinità. Ecco perché l’Apostolo dice che “giammai avrebbero crocifisso il Signore della gloria, se lo avessero riconosciuto” (1Corinzi 2, 8). Tuttavia, bisogna sapere che la loro ignoranza non li scusava dal delitto, poiché era in qualche modo un’ignoranza ostentata. Infatti, essi vedevano i segni evidenti della sua divinità, ma, per odio e per invidia verso Cristo, li stravolgevano e non vollero credere alle sue parole, con cui si professava Figlio di Dio.

Perciò, egli dice di loro: “Se non fossi venuto e se non avessi parlato loro, non avrebbero [nessun] peccato; invece, ora non hanno scuse per il loro peccato” (Gv 15, 22). E poi aggiunge: “Se non avessi fatto fra loro [nessun] miracolo che nessun altro fece, non avrebbero peccato”. E così, si può intendere che sia stato detto a loro nome: “Dissero a Dio: ‘Allontanati da noi: non vogliamo conoscere le tue vie’”» (Gb 21, 14).

Questo peccato degli scribi e dei farisei deve farci riflettere profondamente. Anche noi infatti possiamo essere tentati a provare invidia e superbia nei confronti di Dio, sebbene questo atteggiamento appaia razionalmente come qualcosa di assurdo: come si può infatti invidiare l’Ente assoluto?

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Tommaso d’Aquino
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Eppure, questa condizione si verifica molto spesso. La non comprensione dei progetti divini ci acceca. Inconsciamente ci riteniamo intelligenti come Dio o anche più intelligenti di Dio, sebbene a parole vogliamo ostentare umiltà e sottomissione. La terapia per questo “male sotterraneo”, che uccide spesso senza dare sintomi, è l’esercizio dell’umiltà, che è abbandonarsi alla volontà di Dio, alla legge del Signore, anche quando non la comprendiamo.

Se infatti non comprendiamo o non accettiamo una parte della Rivelazione, il problema non è dalla parte di Dio, ma dalla parte nostra. Bisogna dunque pregare e studiare, per capire quale lacuna ci impedisce di afferrare a pieno la Verità oppure quale giudizio erroneo ci spinge a “impugnare la verità conosciuta”, come recitava il catechismo di San Pio X.

Gaetano Masciullo