Benedetto, Sede Impedita? Riflessioni su Due Casi Storici.

Articolo pubblicato sul blog di Marco Tosatti, 19 gennaio 2024.

Nel dibattito circa la validità o meno della Declaratio di Benedetto XVI e, conseguentemente, dell’elezione del cardinale Jorge Mario Bergoglio a Pontefice con nome Francesco, sarebbe d’uopo non soltanto ascoltare il parere dei canonisti, ma anche quello – altrettanto autorevole – degli storici della Chiesa, poiché i cultori di tale disciplina sanno indicare se e in quali termini casi analoghi vi siano stati in passato e come siano stati risolti dalla Chiesa, se vi siano state differenze o assonanze giuridiche, e così via. Nell’articolo pubblicato sul blog di Aldo Maria Valli, dal titolo “La difficoltà di giudicare Francesco”, avevo cercato di mostrare la fondatezza di almeno uno dei punti critici evidenziati da Andrea Cionci – la questione dell’actus legitimus – e la “quasi correttezza” della questione munus/ministerium (in realtà abbiamo visto imprecisa, perché avrebbe dovuto vertere sui concetti di ufficio primaziale e ufficio episcopale romano, che non vi corrispondono). [1]

Gradirei richiamare l’attenzione del giornalista e storico dell’arte romano, affinché riconsideri la sua obiezione, più volte udita nei suoi podcast, circa l’impossibilità di trovare canonisti o storici disposti a indagare con professionalità e rigore sulla questione, in quanto sarebbero tutti “sacerdoti o cattedratici ammanicati con la Chiesa”, e quindi impossibilitati ad esprimersi senza vedere minacciato, per così dire, il portafoglio e la posizione di prestigio. [2] Nel corso delle mie ricerche, infatti, ho trovato ben tre canonisti che affrontano la questione e danno tre risposte diverse (segno della complessità della disciplina e dello studio da investirvi). Nell’ordine, ho consultato anzitutto l’avv. Francesco Patruno, docente di diritto canonico, che non si fa certo problemi a sostenere la difettosità e l’invalidità della Declaratio, a suo dire certa, e poi manifesta, in virtù dei pronunciamenti eretici e ormai abituali del Sedente, cosa a suo avviso de fide impossibile in caso di vero papa.

Sono riuscito poi a interloquire con mia grande soddisfazione con il sacerdote e canonista, anch’egli docente, Stefano Violi, ora vicario presso la diocesi di Modena-Nonantola. Dico grande soddisfazione, dacché Violi è un po’ all’origine di tutto questo in quanto autore di un articolo sulle differenze concettuali di munus e ministerium, poi confluito – com’è prassi in ambiente accademico – in un lungo, corposo e approfondito paper scientifico cui rimando [3], e dal quale chiaramente si evince che, per l’insigne canonista modenese, la Declaratio sarebbe certamente valida. Vorrei riportare al lettore il seguente aneddoto: durante la gradevole conversazione telefonica avuta con il Violi, alla mia provocazione circa il fatto che egli possa negare l’invalidità della Declaratio a causa della sua scomoda posizione ecclesiale (ribadisco: è vicario diocesano), egli mi ha prontamente risposto: “Non rischiamo così di ammazzare il paziente pur di salvare la diagnosi?” Che la posizione di Violi sia intellettualmente onesta, e non viziata da posizioni scomode, non c’è bisogno di rimarcarlo dal sottoscritto: l’argomentazione coerente e competente dell’articolo succitato basta a tal scopo. Certo, bisogna avere gli strumenti logici e intellettuali necessari per leggerne e comprendere il contenuto. Per inciso: una posizione del tutto analoga a quella del Violi è sostenuta dal giurisperito Federico Michielan, autore del libro Non era più lui (Fede & Cultura 2022), uno studio scientificamente molto approfondito sulle dimissioni di papa Ratzinger e in particolare sulla figura giuridicamente problematica dell’emeritato papale, un testo che raccomando caldamente a chi voglia approfondire la questione, e da leggere affianco a Codice Ratzinger per farsi un’idea più vasta.

Terzo mio interlocutore, e spero di poter approfondire in futuro il dialogo, è l’avvocato canonista Guido Ferro Canale, il quale ha sostenuto in una serie di articoli pubblicati su Radio Spada la problematicità della Declaratio, si direbbe “dubbia”, e di conseguenza dubbia anche l’elezione di Francesco (ma si sa: papa dubius, papa nullus). [4] Egli ci riferisce, tra l’altro, un dato molto interessante in risposta all’ipotesi cionciana: secondo il diritto canonico – egli dice – se il papa dovesse scegliere volontariamente di non esercitare il proprio ufficio, pur conservandolo, compirebbe un delitto canonico. Da quello che ha compreso il Sottoscritto, ciò varrebbe a norma del can. 1378 § 1: “Chi abusa  dell’ufficio [munus] ecclesiastico sia punito a seconda della gravità dell’atto o dell’omissione, non escluso con la privazione, fermo restando l’obbligo di riparare il danno”. L’omissione dell’esercizio del munus è dunque un crimine. Ma anche – e questo mi è stato esplicitamente indicato dal canonista – il § 2 dello stesso canone: “Chi, per negligenza colpevole, pone od omette illegittimamente con danno altrui o scandalo un atto di potestà ecclesiastica, di ufficio o di incarico [munus vel officium], sia punito con giusta pena”. Questa disposizione ricalca letteralmente il previgente can. 1389 § 2 (almeno prima che venisse riformato da Francesco nel 2021). Vale la pena notare che questo è l’unico delitto canonico che incrimini non solo le violazioni dolose, ma anche quelle colpose.

Se fosse vero che Benedetto XVI avesse escogitato da decenni un simile piano anti-usurpazione, per poi applicarlo, egli risulterebbe certamente reo in tal senso. Per di più, l’avv. Ferro Canale cita l’autorità del cardinale De Vio, il Gaetano, secondo il quale “il Papa che rifiuta di sottostare al proprio dovere di Papa configura l’ipotesi orrenda del Papa scismatico” [5]. Se il papa abbandona l’esercizio dell’ufficio papale, ma lo conserva parimenti, per qualsivoglia ragione lo faccia, impedendo così ad altro di essere validamente eletto papa, egli continua ad avere comunque il grave dovere di esercitarlo, agli occhi di Dio come della Chiesa, e certamente questo non lo pone in sede impedita ex can. 412, che è una “condizione patologica” dell’episcopato (e per analogia, del papato) in cui il titolare vorrebbe conservare ed esercitare l’ufficio (mentre Ratzinger, secondo Cionci, non lo avrebbe voluto), ma non può affatto farlo, e ciò perché prigioniero, confinato, esiliato o ammalato gravemente sì da essere inabile o privato per sanzione canonica del suo ministero. La sede impedita è tale – specifica lo stesso canone – se il titolare è “totalmente [plane] impedito”, e quell’avverbio non è casuale. In altre parole, il titolare non sarebbe in sede impedita se fosse solo “parzialmente impedito”, come potrebbe supporsi il caso certamente di Ratzinger, almeno post-Declaratio, se consideriamo che egli continuò a ricevere ospiti, inviare lettere, ecc. Anzi, proprio l’impossibilità di “comunicare per lettera” è indicata esplicitamente dal canone come l’unico sintomo inequivocabile per comprendere di essere di fronte a un titolare totalmente – non parzialmente – impedito, e dunque di sede impedita. Questo spiegherebbe anche perché il can. 335 precisa che nihil innovetur in caso di Sede apostolica “totalmente [prorsus] impedita”, non dice semplicemente “impedita”. Né può invocarsi – mutatis mutandis – il caso di Aldo Moro, che, dalla sua prigionia, poté scrivere quasi un centinaio di lettere. Da parte la circostanza se queste missive dello statista fossero davvero libere, sta di fatto che le stesse erano comunque filtrate dai suoi carcerieri ed in ogni caso non poteva ricevere ospiti, parenti, né recarsi – come ha fatto Benedetto – dal fratello George morente.

Un caso eclatante per capire meglio: se papa Pio VII, prigioniero dei francesi, avesse potuto comunicare per lettera almeno con i suoi funzionari con il permesso di Napoleone suo carceriere, dando ordini, indicazioni o consigli, ecco che, almeno secondo il canone oggi in vigore (non so dire cosa si dicesse al riguardo all’epoca), il papa Chiaramonti non sarebbe stato in sede impedita, perché egli, pur prigioniero, non sarebbe stato “totalmente impedito” nel suo ministero. Inoltre, l’insigne canonista avv. Ferro Canale precisa coerentemente in uno dei suoi articoli che “papa ostacolato non è papa impedito”. [6] Questo è importante sottolinearlo. Sarebbe contraddittorio in termini: qualcuno è ostacolato proprio in virtù di ciò che fa, e che invece non potrebbe fare se impedito. In altre parole: l’ostacolato fa (perciò riceve ostacoli), mentre l’impedito non fa. Questo, in estrema sintesi, il motivo per cui l’ipotesi della sede impedita di Benedetto XVI sarebbe canonisticamente inconsistente.

Ecco, dunque, tre canonisti (più un giurisperito studioso di diritto canonico), di cui due laici e un sacerdote, con tre posizioni diverse: segno che il dibattito è tutt’altro che chiuso o ostacolato dal Sedente, e questo vale almeno per i canonisti laici, se proprio vogliamo sospettare maggiori difficoltà per gli ecclesiastici. Per approfondire ulteriormente la questione della Sedes romana impedita, c’è però un interessantissimo e completo saggio proprio su questo specifico argomento e con questo esatto titolo, a firma di Georg Müller e pubblicato nel 2012. Purtroppo, il saggio è disponibile solo in lingua tedesca. Comunque, al suo interno, si ribadisce quanto già detto, ossia che “La condizione di impedimento deve essere completa (plane a munere pastorali in diocesi procurando praepediatur), cioè deve influire in modo tale che un vescovo non possa nemmeno comunicare per iscritto con la sua diocesi. Georg Bier giustamente definisce questa impossibilità di comunicazione scritta come una ‘dichiarazione definitiva del nucleo normativo’. […] La valutazione di una sede episcopale come impedita si basa esclusivamente sull’impossibilità di questa comunicazione scritta. Questo è importante perché, ad esempio, il fatto di essere in prigione o essere espulsi da solo non caratterizzerebbe ancora la sede come impedita.” (traduzione mia). [7]

A queste considerazioni se ne aggiungano altre. Taluni hanno detto che la distinzione fatta, dietro perizia dell’avv. Patruno e con sostegno documentale, tra ufficio primaziale ed episcopato petrino (onde Benedetto XVI avrebbe validamente rinunciato solo al secondo, ma non anche al primo) corrisponderebbe alla distinzione – meglio sarebbe dire separazione o disgiunzione, visto l’uso teologico improprio che si fa di questi termini – tra munus e ministerium. Non è così. Episcopato romano e ufficio primaziale sono due giurisdizioni distinte, che convivono nella stessa figura (il Papa), sicché in un certo senso avremmo a che fare con una persona dotata di due munera o officia: quello del Pontefice cattolico, propriamente parlando: l’ufficio primaziale, e quello del vescovo romano. Si è detto anche da qualche parte nel web che il papa è tale perché vescovo di Roma. In realtà è esatto l’opposto: il vescovo di Roma è tale perché papa. Il munus primaziale, di diritto divino, è come un cerchio più grande che include al suo interno il cerchio più piccolo del munus episcopale romano, di diritto umano; e quindi, a rigor di termini, rinunciando al primo si rinuncia anche al secondo, ma non viceversa. Ora, Benedetto XVI, nella sua Declaratio, ha espressamente rinunciato all’episcopato romano, non al munus primaziale: questo è il problema canonico. E ciò è palesemente contrario a quanto avevano compiuto i predecessori resignanti o che avevano pur compilato degli atti di rinuncia, anche se poi non vi avevano dato seguito, come fu nel caso di Paolo VI e Giovanni Paolo II, come ho segnalato nel precedente mio contributo segnalato all’inizio del presente scritto.

La diversa trattazione dell’uno e dell’altro ufficio, anche in base al vigente diritto canonico, è bene illustrata nell’articolo segnalatomi dall’avv. Patruno a firma del cardinale Vincenzo Fagiolo, un insigne canonista del secolo scorso, oltre che perito del Concilio Vaticano Secondo per le questioni canoniche. Il cardinal Fagiolo lavorò anche al Codice di diritto canonico del 1983. In un articolo scientifico in cui tratta in maniera specifica della rinuncia al papato e di quella all’episcopato, tra le altre cose, vengono riportati due elementi, a mio avviso, davvero molto interessanti. Il primo: “[A proposito del can. 332.2] il nuovo Codice fa seguire come indicazione di fonti due canoni del precedente Codice, i canoni 185 e 186. Di questi il primo, in riferimento alla perdita dell’ufficio ecclesiastico, […] tratta della rinuncia avvenuta per timore grave o per dolo o per errore sostanziale o simoniacamente: in questi casi la rinuncia in genere, cioè da qualsiasi ufficio ecclesiastico, è ipso iure invalida”. [8] Il secondo: l’Autore riporta la propria interessante testimonianza di esperienza nell’assise conciliare, quando si discusse proprio della liceità o meno dell’abdicazione pontificia e si giunse alla promulgazione del Decreto Christus Dominus “sulla missione pastorale dei vescovi nella Chiesa”. Al n. 21 di questo Decreto, troviamo l’espressione ingravescente aetate adoperata poi da Ratzinger nella sua famosa Declaratio: “Poiché il ministero pastorale dei vescovi riveste tanta importanza e comporta gravi responsabilità, si rivolge una calda preghiera ai vescovi diocesani e a coloro che sono ad essi giuridicamente equiparati, perché, qualora per la loro troppa avanzata età o per altra grave ragione, diventassero meno capaci di adempiere il loro compito, spontaneamente o dietro invito della competente autorità rassegnino le dimissioni dal loro ufficio” (mi sia concessa una piccola provocazione e mi sia lecito far notare che qui i traduttori italiani usano “ministero” in luogo di “munus”, e siamo nel 1965) [9]. Scrive il cardinal Fagiolo: “Quando il n. 21 fu specificatamente votato in congregazione generale, venne approvato quasi all’unanimità” [10]. Joseph Ratzinger all’epoca non votò, essendo egli solo perito del card. Frings, non già vescovo. Ma ancora più interessante è la conclusione del cardinal Fagiolo (ricordiamo che tale articolo è stato pubblicato nel maggio 1995): “Queste problematiche [delle dimissioni per età N.d.R.] non coinvolgono, com’è ovvio, il Pastore dei Pastori, il Vescovo di Roma!” [11] Lecito chiedersi, dunque, da dove venga tale ovvietà. Rimane ancora tale nella mens dei canonisti e degli altri studiosi, dopo le dimissioni di Benedetto XVI?

Sempre sotto il profilo canonistico, il prof. Carlo Fantappiè, in un suo contributo, parlando della scelta di Benedetto di attribuirsi l’appellativo di “papa emerito”, scrive: “o il papa c’è, e allora esercita le sue piene funzioni di supremo pastore della Chiesa in actu, oppure non c’è, e allora siamo nel regime della Sede apostolica vacante. Non si può prevedere nella Chiesa né una sorta di consolato, sul modello romano, né una coesistenza di due papi, seppure l’uno in pieni poteri, l’altro senza poteri. Proprio la posizione unica e sostanziale che rappresenta nella Chiesa cattolica non permette di concepire, sotto qualsiasi titolo, un papa che non sia nel pieno delle sue funzioni e dei suoi poteri. Non sembra quindi giuridicamente possibile qualificare tale un papa che non eserciti in tutto e per tutto le funzioni annesse all’ufficio”. [12]

Ci poniamo ora la domanda: ci sono stati casi in passato di papi legittimi che abbiano abdicato in maniera difettosa e, ancora viventi, abbiano visto l’elezione di un usurpatore? Stiamo in altre parole cercando un caso analogo al potenziale Affaire Ratzinger-Bergoglio. Finora ne ho trovati due di molto interessanti e, in entrambi i casi, i papi considerabili in qualche misura usurpatori a causa della non canonicità delle loro rispettive elezioni sono stati tuttavia considerati legittimi dalla Chiesa. Almeno sino ad oggi. Nel 1045, papa Benedetto IX abdicò vendendo il pontificato a Giovanni dei Graziani per “duemila libbre”, il quale fu incoronato con il nome pontificale di Gregorio VI. Le dimissioni di Benedetto IX furono ovviamente illegittime, anzi criminali, trattandosi di simonia. Un anno dopo, l’imperatore Enrico III di Sassonia convocò un sinodo a Sutri per porre rimedio alla vergognosa situazione. Benedetto IX, che era decaduto da papa non già per l’abdicazione simoniaca quanto per la scomunica conseguente al delitto canonico, non si presentò. Gregorio VI, che pur era stimato da personalità ecclesiastiche come S. Pier Damiani, invece, si presentò e confessò di aver comprato il titolo “in buona fede e semplicità”, ma ciononostante fu costretto a dimettersi, pronunciando contro se stesso sentenza di auto-deposizione; mentre un terzo pretendente al papato, Silvestro III, che era stato proclamato papa precedentemente per acclamazione popolare, si vide ridotto allo stato laicale. Fu così eletto Clemente II. Cosa curiosa: Silvestro III, eletto papa per acclamazione popolare (metodo di elezione pontificia piuttosto standard almeno fino al 1058-59, poi considerato sui generis, ma certo non per sua natura criminoso, infine dal 1996, anno di promulgazione della legge speciale Universi Dominici Gregis, anche l’acclamazione da parte dei cardinali è stato totalmente escluso come criterio di elezione pontificia dal diritto), è passato alla storia nell’elenco degli antipapi, mentre Gregorio VI, certamente eletto in maniera illegittima, è invece passato nell’elenco dei papi legittimi.

Fatto curioso: il sinodo di Sutri continuò poi a Roma il giorno seguente, per sancire la deposizione di Benedetto IX: questi fu dichiarato decaduto dal momento in cui aveva abdicato in favore di Giovanni Graziani (Gregorio VI). Il papato di Gregorio fu dichiarato «sede vacante» da quel momento, e Gregorio VI fu considerato sostanzialmente tamquam non esset, come se non ci fosse stato. Sarebbe quindi, a rigore, un usurpatore ed un antipapa; ciononostante è considerato papa legittimo ancora oggi e Ildebrando di Soana (futuro santo), che era suo segretario, assunse – una volta salito al trono papale – il nome di Gregorio VII (e non con il numerale VI), in continuità dunque con il Graziani, per sottolinearne quasi la sua legittimità.

Solo recentemente Silvestro III è stato riammesso nell’elenco dei papi legittimi, anche se per un periodo precedente a quello in questione (la storia di Benedetto IX è infatti tortuosa, essendo egli stato eletto papa per ben tre volte). I canonisti e gli storici, tuttavia, non escludono che un domani, vista la condizione canonica dell’elezione di Gregorio VI, questi possa essere depennato dall’elenco dei papi legittimi. [13]

Altro caso interessante è quello di papa Giovanni X, imprigionato nel carcere di Castel Sant’Angelo nell’anno 928. Morirà un anno dopo in una condizione, oggi diremmo, di “sede romana totalmente impedita”. Nel frattempo, tuttavia, senza che papa Giovanni poté dichiarare ufficialmente alcuna abdicazione formale, gli aristocratici romani che avevano complottato ai danni del povero papa ora prigioniero spinsero per l’elezione di un suo successore, che prese il nome di papa Leone VI. Questi durò solo sette mesi e cinque giorni. Alla sua morte – mentre Giovanni X era ancora vivo ma in prigione – fu eletto un nuovo Pontefice, papa Stefano VII. La cosa curiosa è che l’elezione di questi due pontefici non fu voluta dal popolo romano, ma da una donna, Marozia, che aveva ottenuto in maniera fraudolenta il titolo di senatrix Romanorum, e il cui unico interesse era quello di preservare il potere e di utilizzare i papi come fantocci per conservarlo, tanto che nella storia questi due papi vengono indicati come i primi di una lunga lista di “papi cortigiani”. Eppure, nonostante le evidenti problematicità canoniche anche per l’epoca, questi due papi vengono conteggiati, ad oggi, come legittimi. [14]

Per cui, alla luce della stessa storia del papato, che oggi si ponga un Affaire Ratzinger-Bergoglio non deve destare meraviglia. In fondo, la Chiesa, nella sua vita bimillenaria, ne ha viste di tutti i colori. Nihil sub sole novum. Questa ricerca, che ha degli indubbi profili di fascino, però, deve auspicabilmente continuare, per fare piena luce – quando Dio vorrà – sull’affaire di cui abbiamo dato conto, ma anche sulle vicende dei pontefici che abbiamo esemplificato. Quel che possiamo dire è che – come nota sempre il prof. Fantappiè – pare certo che “Benedetto XVI si distacc[hi] sensibilmente dalla consolidata tradizione canonistica” [15], cosa che ha creato confusione e divisioni in seno alla Chiesa. L’insigne prof. Francesco Margiotta Broglio, in un’intervista di pochi anni fa, osservava, infatti, che, al fine di evitare di contrapporsi al regnante Francesco, “avendo rinunciato, Benedetto avrebbe dovuto andare fuori Roma e non parlare né scrivere” [16].

Note:

[1] https://www.aldomariavalli.it/2024/01/08/la-difficolta-di-giudicare-francesco-unesplorazione-teologica-e-canonica/

[2] A titolo di esempio: https://youtu.be/EyNOf1-z0t0?si=pxFTHbMbYniNIIhY

[3] Stefano Violi, “Officium e munus tra ordinamento canonico e comunione ecclesiale”, www.statoechiese.it, n. 31 (2019).

[4] https://www.radiospada.org/2023/01/la-rinuncia-di-benedetto-xvi-la-parola-ad-un-giurista/

[5] “In oppositum dicitur quod persona papae potest renuere subesse officio papae, quod per accidens est pro tunc in ipso. Et si hoc in animo pertinaciter gereret, esset schismaticus per separationem sui ab unitate capitis. Ligatur siquidem persona sua legibus officii sui quoad Deum, ut in praecedenti libro declaratum est. Ad secundum dicitur quod Ecclesia est in Papa quando ipse se habet ut Papa, ut caput Ecclesiae. Quando autem ipse nollet se habere ut caput eius, neque Ecclesia in ipso, neque ipse in Ecclesia esset.” (Si afferma che la persona del Papa potrebbe rifiutarsi di sottostare all’ufficio del Papa, che accidentalmente risiede in lui in quel momento. E se facesse ciò con ostinazione, sarebbe scismatico per la separazione di se stesso dall’unità del capo. Infatti, la sua persona è vincolata dalle leggi del suo ufficio dinanzi a Dio, com’è stato dichiarato nel Libro precedente. […] Si dice che la Chiesa è nel Papa quando egli stesso si comporta come Papa, come capo della Chiesa. Ma quando egli non volesse comportarsi come capo di essa, né la Chiesa in lui, né lui nella Chiesa esisterebbero), Tommaso card. de Vio, commentario in Sancti Thomae Aquinatis Doctoris Angelici Opera Omnia iussu impensaque Leonis XIII P.M. editaSumma theologiae II-II, q. 39, a. 1, v. 8, p. 308b.

[6] https://www.radiospada.org/2023/01/la-rinuncia-di-benedetto-xvi-la-parola-ad-un-giurista/

[7] Georg Müller, Sedes romana impedita, «Kanonistische Reihe», Band 023 EOS-Verlag, pp. 54-55.

[8] Vincenzo card. Fagiolo, La rinuncia al Papato e la rinuncia all’Ufficio episcopale (Il caso di Papa Celestino V), «I Quaderni dell’Università di Teramo», n. 2, 19 maggio 1995, p. 18.

[9] Originale latino: “Cum igitur pastorale Episcoporum munus tanti sit momenti tantaeque gravitatis, Episcopi dioecesani aliique in iure ipsis aequiparati, si, ob ingravescentem aetatem aliamve gravem causam, implendo suo officio minus apti evaserint, enixe rogantur ut, vel sua ipsi sponte vel a competenti Auctoritate invitati, renuntiationem ab officio exhibeant”.

[10] Vincenzo card. Fagiolo, op. cit., p. 22.

[11] Ivi, p. 23.

[12] C. Fantappiè, Riflessioni storico-giuridiche sulla rinuncia papale e le sue conseguenze, «Chiesa e Storia. Rivista dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa», 2014, fasc. n. 4, pp. 91-118, partic. p. 109.

[13] https://www.treccani.it/enciclopedia/gregorio-vi_(Enciclopedia-dei-Papi)/

[14] https://www.treccani.it/enciclopedia/leone-vi_(Enciclopedia-dei-Papi)/

[15] C. Fantappiè, op. cit., p. 110.

[16] C. Martinetti, “Bisogna chiedersi se Ratzinger stia diventando un antipapa”, La Stampa, 15 gennaio 2020, p. 12.